I fondi di Private Equity consentono all’investitore di partecipare nel capitale di imprese che non sono quotate in borsa. Il Private Equity è quindi un’asset class alternativa.
Caratteristiche più apprezzate dagli investitori: decorrelazione rispetto al mercato azionario quotato ed elevati rendimenti attesi.
Come funzionano i fondi di Private Equity? Solitamente secondo lo schema della limited partnership.
L’investitore assumerà il ruolo di Limited Partner, il gestore di General Partner. Tramite la quotazione di alcuni i questi fondi è stato possibile anche per il comune investitore retail esporsi a questa asset class alternativa, potendo addirittura beneficiare non solo degli utili in quanto limited partner, ma anche dei proventi derivante dall’attività gestoria del general partner.
Questo aspetto sarà affrontato più nel dettaglio nel successivo articolo di questa serie legata agli investimenti di Private Equity effettuati tramite Exchange Traded Fund. Per saperne di più sugli Exchange Traded Fund ti rimando al primo estratto della mia tesi di laurea: Exchange Traded Fund: Cosa sono gli ETF e Come funzionano?
Parte 1: ETF: Cosa sono e come funzionano
Parte 3: ETF di Private Equity: il PE per piccoli investitori
Parte 4: Investire nel Private Equity: Analisi quantitativa con ETF
Gli asset alternativi
Dalla definizione della Modern Portfolio Theory negli anni 50 dello scorso secolo da parte dell’economista e Premio Nobel Harry Markowitz, si è assistito alla continua ricerca di asset non correlati per sfruttare appieno il potenziale della diversificazione.
La Modern Portfolio Theory sostiene che un investitore può costruire un portafoglio composto da molteplici asset che, per effetto della diversificazione, permette di ottenere ritorni più elevati con un livello di rischio inferiore.
Questo nel rispetto dell’ipotesi che i rendimenti di tali investimenti non siano perfettamente correlati, quindi che abbiano una dinamica differente lungo il periodo di investimento analizzato.
Nonostante le numerose critiche che questo modello ha avuto nel tempo, il principio della diversificazione e della non-correlazione dei rendimenti tra diverse asset class è rimasto una pietra fondante.
Se a questo si aggiungono gli ormai infinimi rendimenti che asset class tradizionali come l’obbligazionario hanno offerto negli ultimi anni, forti delle politiche espansive delle banche centrali e del conseguente tasso di interesse risk-free ormai da tempo negativo, gli asset alternativi diventano una scelta da prendere almeno in considerazione.
Non c’è un’unica definizione di asset alternativi. Per la loro individuazione si può fare riferimento al rispetto di determinate caratteristiche, prime fra tutte la loro contrapposizione agli investimenti tradizionali: azionario quotato e obbligazionario quotato di tipo investment-grade, sia societario che corporate.
Il CFA Institute individua tre principali attributi, ognuno dei quali può singolarmente portare alla classificazione dello strumento finanziario in asset alternativo:
- I ritorni dell’investimento sono determinati dall’esposizione dell’asset sottostante a flussi di cassa “non tradizionali”: si tratta di cash flow che non sono altamente correlati con quelli del mercato azionario e obbligazionario quotato;
- I ritorni dell’investimento derivano da una strategia complessa di trading che include l’utilizzo di leva finanziaria, vendita allo scoperto, impiego di strumenti finanziari derivati che portano ad esposizioni non usuali sotto il profilo del rischio, anche nel caso in cui l’asset sottostante sia di tipo tradizionale;
- I ritorni dell’investimento sono strutturati in modo tale da generare un payout “non tradizionale”.
All’interno del medesimo libro a cura del CFA Institute, Alternative Investments: A primer for investment professionals, sono individuate quattro categorie di investimenti alternativi:
Hedge fund
Gli Hedge Fund sono fondi disponibili solitamente per investitori istituzionali o singoli facoltosi investitori che, nel rispetto del secondo punto di cui sopra, permettono un’esposizione “non tradizionale” tramite strategie complesse (Equity Market Neutral, Long/Short Equity Hedge, Convertible Arbitrage, Dedicated Short Bias, …).
Asset reali
Immobiliare, investimenti in infrastrutture, materie prime, risorse naturali, terreni o asset immateriali come proprietà intellettuali.
Prodotti strutturati
Derivati finanziari o particolari classi di debito che offrono un’esposizione non riproducibile da investitori long-only.
Private Equity
Includono titoli azionari ordinari, privilegiati e talvolta debito di società non quotate con payout equity-like. Questa categoria include anche investimenti in venture capital e operazioni di leveraged buyout. Nella successiva sezione si fornirà un approfondimento a tal riguardo.
Che cosa è il private equity?
Il Private Equity, asset class appartenente alla macro-famiglia degli asset alternativi, eredita da essa sia la positiva caratteristica dell’esposizione a payout non tradizionali che il fatto di non avere una definizione ben precisata.
Inizialmente si potrebbe pensare che il Private Equity rappresenti un investimento azionario di tipo “private”, quindi non quotato su mercati regolamentati. Non è sempre così, anche se questo può iniziare a definirne labilmente i confini.
Ci sono infatti operatori di Private Equity che operano nel mercato borsistico, con lo scopo ad esempio di ottenere i capitali necessari alla strutturazione di un’operazione. Si pensi a tal proposito alle SPAC, “Special Purpose Acquisition Company”, utilizzate per la quotazione di società private nei listini pubblici. Vi sono inoltre fondi di private equity quotati sui mercati regolamentati che permettono agli investitori di far fronte all’illiquidità di questa tipologia di investimento tramite la presenza di un mercato secondario.
Per individuare i confini di questa asset class si può procedere per esemplificazioni, nel rispetto delle caratteristiche che di seguito verranno illustrate. I fondi di Private Equity possono infatti finanziare le imprese in ogni loro fase, dalla nascita allo sviluppo sino a giungere al declino:
- Venture capital: apporta risorse alle società nella fase di creazione (seed capital), alla prototipizzazione (early stage), industrializzazione e lancio commerciale (mid-stage) fino al raggiungimento della profittabilità, la vendita o la quotazione nei mercati regolamentati (late stage);
- Growth Capital: finanziamento delle società in espansione, spesso confuso con il venture capital o con operazioni di LBO di piccole dimensioni;
- LBO: finanziamento del passaggio di proprietà di società. Le operazioni di Leveraged Buy Out permettono il trasferimento della proprietà di società, definite target, tramite la combinazione di capitale e debito, quest’ultimo solitamente finanziato dai flussi operativi dell’acquisita;
- Turnaround e “special situation”: mirano alla ristrutturazione e al risanamento di società in crisi tramite l’iniezione di nuova liquidità all’interno di un piano più ampio. Proprio per questo spesso sono parte di operazioni che coinvolgono Private Debt.
Funzionamento e caratteristiche dei fondi di Private Equity
Un fondo di Private Equity può essere analizzato sulla base di differenti direttive che ne definiscono le peculiarità.
Innanzitutto l’orizzonte temporale di riferimento è tendenzialmente di medio-lungo termine in funzione del piano che la società di gestione intende attuare.
Da un investimento di growth capital ci si aspetta una permanenza nella compagine azionaria maggiore configurandosi come “capitale paziente” rispetto ad un’operazione di turnaround dove, dopo aver ristabilito l’equilibrio finanziario, si tende a procedere con la liquidazione della posizione. Il periodo di investimento viene determinato nel momento di effettuazione dell’investimento, solitamente coincidente con la nascita del fondo e si individua in un range che spazia dai 3 ai 10 anni.
La realizzazione di un’esposizione non convenzionale e il frequente utilizzo della leva finanziaria a supporto delle operazioni portano al raggiungimento di alti livelli di rischio.
Oltre ai rischi di carattere specifico, legati all’attuazione del piano in senso stretto, si devono considerare anche fattori esogeni quali la ciclicità dell’asset class e l’emersione di nuovi o differenti prodotti di investimento.
I ritorni attesi di questa asset class, dati i maggiori rischi sopportati, sono più elevati rispetto agli asset tradizionali. Questo in termini sia assoluti che relativi. Con riferimento ai rendimenti analizzati secondo una direttrice relativa, si mira al contempo al miglioramento del rendimento marginale del portafoglio tramite de-correlazione e alla generazione di extra-rendimento.
L’extra-rendimento, in gergo tecnico anche definito α, “alfa”, indica il differenziale positivo tra la performance dello strumento finanziario e il suo benchmark di mercato, chiamato così in quanto rappresenta il “termine noto” dell’equazione che definisce il rendimento dell’asset.
Con l’affievolirsi della trasparenza e la creazione di un mercato meno efficiente la generazione di sovra-rendimento è, in termini probabilistici, determinata non più solo da una componente di casualità ma dalla professionalità del gestore del fondo che crea valore tramite l’analisi, la selezione, la gestione e il monitoraggio degli investimenti (Demaria C., 2020).
Operare in mercati “Private” porta ad una ricorrente mancanza di informazioni determinando così la citata mancanza di trasparenza. Le ragioni si possono attribuire sia ai minori obblighi imposti dal legislatore in termini di informativa societaria che ai maggiori costi che imprese di minori dimensioni devono sostenere per la produzione di tali informazioni.
L’asimmetria tra insider, attuale proprietario della società, e gli outsider, il potenziale acquirente e più in generale i diversi stakeholder dell’azienda, è indubbia. A questo si devono aggiungere i differenti gradi di disclosure imposti dagli stati alle società operanti in una data giurisdizione, creando così un panorama sempre meno omogeneo.
Si è molto discusso in letteratura a proposito del fatto che i fondi di Private Equity creino o meno valore, con riferimento ai loro impatti sistemici sul mercato reale.
I detrattori di tale asset class fanno principalmente riferimento agli alti livelli di indebitamento, non sempre correlati alla struttura finanziaria ideale della società Target e alla possibile intensificazione della ciclicità del mercato.
Tendenzialmente, infatti, si assiste ad un aumento delle valutazioni, un incremento del volume di transazioni e l’operatività in mercati considerati più rischiosi nei periodi di maggior euforia, solitamente precedenti le crisi economiche.
Non si tratta di una correlazione univoca. Nel 2021 nonostante il numero di transazioni sia notevolmente cresciuto e gli investimenti al di fuori del Nord America, dell’Europa e dell’Asia siano aumentati del 30% circa rispetto al precedente anno, i multipli medi di valutazione si sono leggermente compressi.
Al contempo però i rapporti più distesi tra questi intermediari finanziarie e il ceto bancario potrebbero realizzare l’effetto opposto, vale a dire una riduzione della ciclicità del mercato agendo a sostengo delle aziende nella fase di crisi. Lo studio condotto da Bernstein S. et al nel 2019, coinvolgente il mercato del Regno Unito, la principale piazza finanziaria del vecchio continente, ha evidenziato come la presenza di un fondo di Private Equity nella compagine sociale abbia portato a una minore riduzione degli investimenti nei momenti di crisi.
Al contempo, come ci si può ben aspettare, si assiste ad un più elevato livello di indebitamento per le società assistete da un fondo di Private Equity ma un minore costo del debito.
Infine lo studio conclude sostenendo che i ritorni successivi alla crisi sono stati maggiori per chi è stato assistito da un fondo sia analizzando ratio legati all’EBITDA, all’utile netto che, nel caso di società quotate, al valore di borsa.
Questo grazie anche al supporto consulenziale che il fondo stesso, nei momenti di maggiore difficoltà, può offrire in termini di risorse umane alle società in portafoglio, anche tramite la riallocazione di capitale umano precedentemente impiegato in operazioni di sviluppo e acquisizione.
La quasi totalità dei fondi di Private Equity sono organizzati secondo lo schema anglosassone della “limited partnership”, nella sostanza assimilabile come effetti alle SGR nazionali, Società di gestione del risparmio.
La società di Private Equity, il General Partner o GP, assume il ruolo di gestore del fondo. Detto fondo è composto dagli apporti effettuati da investitori istituzionali o individui facoltosi definiti Limited Partners o LP. Lo statuto del fondo stabilisce i termini temporali di liquidazione dell’investimento che, come anticipato, si estende tra i 3 e i 10 anni.
I Limited Partner apportano il capitale di rischio e, come si può ben intuire, sono remunerati in base all’andamento degli investimenti realizzati dal General Partner. Il capitale di rischio è richiamato dal General Partner in una o più sedute, definite call, entro il termine di investimento del fondo ovverosia prima della liquidazione del fondo stesso.
Il General Partner è ricompensato per l’attività di consulenza, analisi e gestione del fondo sulla base di una componente fissa, la “management fee” solitamente parametrata all’ammontare della raccolta e generalmente in un intervallo con valore minimo di 1,25% e massimo di 2,5% annuo per i fondi di Private Equity che effettuano investimenti diretti. Per i fondi di fondi la fee annua scende nell’intorno dello 0,5% annuo. È presente, inoltre, una componente variabile definita “carried interest” o “performance fee” utilizzata al fine di allineare gli interessi e ridurre parzialmente l’azzardo morale del General Partner dato un evidente problema di agenzia nei confronti dei Limited Partner.
Tale problema di agenzia è determinato da molteplici fattori quali l’impossibilità del Limited Partner di esercitare diritti di governance nelle società di cui il fondo è proprietario, nei limiti stabiliti dalla partnership, l’arbitrarietà nella selezione degli investimenti, includente nei casi più gravi operazioni malevoli con parti correlate, la disclosure dei rendimenti, sia in ottica di sovrastima per la ricerca di potenziali nuovi investitori e nell’ipotesi di liquidazione periodica del carried interest che di sottostima, nel caso in cui il piano attuato non dovesse restituire i risultati sperati.
Il Carried interest è applicato ad una base imponibile determinata come differenza tra i profitti realizzati e una remunerazione minima stabilita dal regolamento, l’hurdle rate, nell’ordine del 6-8%. Per contrastare fenomeni di doppia imposizione di dette commissioni solitamente viene applicato un meccanismo di “water mark”: le fee periodiche vengono richieste solo nel caso di raggiungimento di un più elevato livello in termini di NAV, il water mark.
Il mercato del Private Equity
Gli Asset Under Management nel segmento Private Equity hanno raggiunto un nuovo massimo attestandosi a 6.300 miliardi di dollari nel 2021. L’impatto sul mercato reale però deve essere considerato in accordo con il debito impiegato. Gli investimenti complessivi di Private Market, di cui il Private Equity conta per circa il 60%, nel medesimo anno hanno registrato una magnitudo di circa 3.500 miliardi di dollari contro una raccolta di 1.200 miliardi.
La ripartizione geografica è nettamente sbilanciata verso il Nord America, lievemente al di sotto del 60% (4.000 miliardi di dollari) degli Asset Under Management complessivi. L’Europa con circa ¼ della raccolta nordamericana si attesta a circa 1.340 miliardi di dollari.
La ripartizione rispetto alla tassonomia precedentemente individuata vede una raccolta complessiva di 6.300 miliardi di dollari ripartiti in:
- Venture Capital: 1.829 miliardi di dollari di cui il 41% in Nord America e il 9% in Europa;
- Growth Capital: 988 miliardi di dollari di cui il 34% in Nord America e il 9% in Europa;
- LBO: 2.994 miliardi di dollari di cui il 60% in Nord America e il 27% in Europa;
- Turnaround e “special situation”: classificati nel report come “Other”, hanno portato ad una raccolta di 484 miliardi di dollari di cui più del 70% in Nord America e nell’intorno del 10% in Europa.
Quale è il rendimento di un investimento in PE?
Sotto il profilo del rendimento, l’asset class del Private Equity ha prodotto risultati consistenti, anche se normalizzati sulla base del rischio assunto dall’investitore.
L’aumento della massa gestita da 153 miliardi di dollari agli attuali 680 miliardi è la prova di un interesse sempre più crescente sia da parte degli investitori retail che dalla famiglia degli istituzionali.
La stima dei rendimenti degli investimenti in Private Equity varia in base alla metodologia impiegata, il dataset considerato e l’orizzonte temporale analizzato.
Gupta A. et al individuano per la categoria Buyout ritorni attesi annualizzati nel periodo 1980-2000 pari a circa il 9,5% mentre per il Venture Capital pari al 9,8%, secondo un modello a due fattori e impiegando il dataset fornito da Prequin.
Lo studio condotto da Harris R. S. et al individua un rendimento mediano del 9,8% nella prima decade di questo secolo, 14,6% per gli anni ‘90 e 14,9% negli anni ’80 utilizzando un database proprietario.
Phalippou L. dopo una disamina delle difficoltà e dei principali bias che si affrontano nella determinazione dei ritorni di questa asset class determina un range di valore minimo pari al 4,3% e valore massimo del 25,7% rispettivamente riferito ai 5 anni precedenti Settembre 2009 e i 15 anni precedenti tale data utilizzando i dati forniti da Thomson One banker. Vari report di settore, tra cui il precedentemente menzionato studio della società di consulenza McKinsey, individuano il rendimento annuo nell’intorno del 19%. In quest’ultimo caso è stato utilizzato il dataset di Burgiss prendendo in considerazione l’orizzonte temporale 2008-2018.
Al contempo, in ottica relativa, normalizzando per la più elevata leva finanziaria tradizionalmente adottata negli investimenti di Private Equity e applicando aggiustamenti che permettono la confrontabilità rispetto al mercato azionario quotato, si è concluso che è presente un sovra-rendimento di breve periodo rispetto alla controparte pubblica, dovuto in larga parte alla più elevata volatilità.
Incrementando l’orizzonte temporale invece la volatilità in eccesso porta i rendimenti al “ritorno verso la media” facendo evaporare i sovra-rendimenti all’aumentare del periodo di riferimento analizzato.
Al contempo Nouvellon E. et al indicano, a seguito di un’analisi della letteratura, un premium atteso rispetto al tradizionale mercato azionario nell’intorno del 2,5-3% motivato dal rischio addizionale e dall’illiquidità dell’investimento.
Una delle maggiori difficoltà che si affronta nella valutazione di un investimento di Private Equity è aggiustare i rendimenti precedentemente individuati per il rischio sopportato, considerando al contempo la non omogeneità del timing di distribuzione dei flussi del fondo.
La determinazione del rendimento come IRR, internal rate of return, coincidente con il TIR, tasso interno di rendimento, o, in alternativa, sulla base del rapporto tra distribuzioni e apporti in conto capitale, infatti, non include alcuna componente di rischio e presenza difficoltà di comparazione con il mercato azionario tradizionale.
Le procedure standard di aggiustamento per tali fattori, come il PME, public market equivalent, considerano solo la componente di rischio aggregato di mercato e la possibilità di impiegare le distribuzioni in mercati quotati.
Sono state sollevate numerose critiche circa l’utilizzo della volatilità dei rendimenti come misura del rischio per l’analisi dei singoli investimenti, data la mancanza di un mercato secondario che fornisce una valutazione prontamente aggiornata del valore degli asset. Dato il maggior orizzonte temporale la volatilità dei rendimenti è intrinsecamente minore rispetto ad un mercato quotato.
Devono quindi essere considerati fattori di carattere macroeconomico per far fronte a serie storiche che non riflettono in tempo reale un fair market value. La componente di liquidità, intesa come holding period richiesto, assume quindi carattere essenziale e di egual importanza rispetto alla volatilità dei rendimenti.
In termini relativi, l’aggiunta di un investimento di Private Equity ad un portafoglio composto da strumenti quotati offre una riduzione del rischio dovuta alla diversificazione: questo sia sotto il profilo dell’accesso ad un’ulteriore componente azionaria, non disponibile se si considera un paniere composto solo dai listini di borsa, che per la possibilità di investimento in differenti stage di maturità dell’impresa: dalla nascita, il caso del venture capital, al declino, il turnaround e le special situation.
A tale prima fonte di extra-ritorni dell’asset class del Private Equity si deve considerare un premium legato all’illiquidità dell’investimento e il “first-mover advantage”. Il premium di illiquidità, come già anticipato, è motivato dalla maggior rischiosità dell’investimento complessiva che, a parità di condizioni, porta gli investitori a chiedere un maggior rendimento atteso.
Il first mover advantage invece sottostà all’ipotesi, empiricamente verificata in altre asset class come gli hedge fund che applicano strategie di convertible arbitrage, che i primi investitori ottengano un maggior ritorno sull’investimento. Questo lo si può attribuire ad una parziale minor efficienza, che nel tempo si affievolisce a causa dell’adozione sempre più massiccia di asset class prima riservate a pochi operatori.
Ne consegue quindi una riduzione degli extra-rendimenti producibili, sempre in termini probabilistici, sia per ragioni di massa gestita che di opportunità disponibili sul mercato.
Gli investitori con un’alta tolleranza al rischio potrebbero quindi ritenere interessanti investimenti in sub-mercati di questa asset class non ancora “affollati”, sfruttando così appieno le skill di selezione dei gestori di fondi che vi operano.
Nel prossimo articolo si analizzerà nel dettaglio questa tematica al fine di fornire un concreto approccio all’analisi del rischio per investimenti di Private Equity quotati su mercati regolamentati.
Fonti E Approfondimenti
- Bergmann B. et al, 2009, “Listed Private Equity”, SSRN
- Bernstein S. et al, 2018, “Private Equity and Financial Fragility during the Crisis”, The Review of Financial Studies
- Brown C., 2012, “Risk and Return Characteristics of Listed Private Equity”, The Oxford Handbook of Private Equity
- CFA Institute, 2018, “Alternative Investments: A primer for investment professionals”
- Demaria C., 2020, “Introduction to Private Equity, Debt and Real Assets: from Venture Capital to LBO, Senior to Distressed Debt, Immaterial to Fixed Assets”, John Wiley & Sons
- Gupta A. et al, 2021, “Valuing Private Equity Investments Strip by Strip”, The Journal of Finance
- Harris R. S. et al, 2014, “Private Equity Performance: What Do We Know?”, The Journal of Finance
- McKinsey’s Private Equity & Principal Investors Practice, 2022, ”McKinsey Global Private Markets Review”
- Metrick A. et al, 2010, “The Economics of Private Equity Funds”, Oxford University Press
- Nouvellon E. et al, 2018, “Private equity performance and asset allocation: impact of low rates and the J curve of cash flows”, Centre Emile Bernheim, Solvay Business School
- Phalippou L., 2011, “Why is the evidence on private equity performance so confusing?”, SSRN
- Rudin A., 2022, “Public and Private Equity Returns: Different or Same?”, The Journal of Portfolio Management